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La voce degli esperti

"sulla maleducazione". riflessioni sul saggio del professor sergio tramma alla luce delle esperienze educative nelle comunita' mamma-bambino

Di Raffaella Fantuzzi, coordinatrice Comunità mamma-bambino Fondazione Asilo Mariuccia

Il saggio di Sergio Tramma "Sulla maleducazione" (R. Cortina, Milano, 2020) è una lettura molto interessante per chi si occupa di educazione, perché in modo piacevole e avvincente offre delle chiavi di lettura per comprendere i processi con cui i soggetti, singoli e collettivi, arrivano a determinare quali apprendimenti vadano promossi e auspicati e quali no. Nell’impostare il testo, Tramma, già professore ordinario di Pedagogia generale e Pedagogia sociale presso l’Università di Milano Bicocca, studioso dei nessi tra educazione e contemporaneità, sceglie di riconoscere al concetto di maleducazione, sin dal titolo, la possibilità di esistere ed essere indagato di per sé; non lo assimila, come si è soliti intenderlo, alla sola accezione negativa di carenza o totale privazione della sua “sorella gemella eterologa” complementare, la buona educazione.

La maleducazione è approcciata come tema serio, rispetto al quale il lettore è condotto ad interrogarsi sulle priorità e sulle dinamiche con le quali i destinatari dei processi educativi vengono socializzati nel contesto di appartenenza. È interessante poi scoprire che un comportamento “mal-educato” può evidenziare il fallimento di un processo educativo, ma anche rappresentare l’emergere di una novità, la volontaria scelta di discontinuità con determinati aspetti, norme o valori del contesto di riferimento; questo è accaduto e ancora accade, per esempio, nei movimenti di contestazione che rivendicano il rispetto di diritti negati o denunciano le crescenti forme di diseguaglianza che sono sotto gli occhi di tutti. In questo caso alcuni attori, tipicamente giovani o minoranze, si assumono l’onere di passare per maleducati per promuovere un passaggio di mentalità e aspirare ad un’altra educazione. I temi su cui interrogarsi oggi, stimolati da questa lettura, sono tanti e urgenti; il disorientamento, in fatto di educazione e non solo, è una costante generale con cui fare i conti, essendo venuta meno la solidità dei punti di riferimento che le narrazioni “forti” del Novecento sapevano offrire, muovendo da prospettive religiose e politiche in grado di orientare gli sguardi e finalizzare i comportamenti, infondendo una certa sicurezza.


Oggi, volendo promuovere dei percorsi con intenzionalità educativa, è necessario domandarsi quali processi stiano portando fasce di popolazione sempre più consistenti alla deriva di esistenze mal-educate, a quali interessi eventualmente queste dinamiche rispondano, che ruolo sociale svolgano, quale sia la loro genesi storica. Per buona educazione non si intendono, ovviamente, le “buone maniere”, che invece, intese come bon ton, possono costituire un insidioso rischio di discriminazione, nel momento in cui evidenziano, nella forma, diseguaglianze sostanziali rispetto alle differenti possibilità di accesso a determinati ambienti sociali e formativi. Venendo alla quotidianità, l’autore, con un approccio sempre mirato a cogliere il portato pedagogico delle scelte e dei posizionamenti dei soggetti, avvicina moltissimi luoghi del vivere, entrando nel terreno dei rapporti di coppia, di famiglia, scuola, lavoro, politica. E ben si presta la politica attuale ad un’indagine sulla maleducazione, dal momento che pare averne legittimato diversi eccessi, considerandoli addirittura come dei presunti meriti. Il testo propone anche riferimenti e suggestioni musicali, letterari e cinematografici, includendo a pieno titolo anche le produzioni più popolari, senza preclusioni, ma con la passione di comprendere ciò che davvero agisce, muove e orienta le persone e le masse nelle loro tendenze, preferenze e licenze. Troviamo tra i tantissimi riferimenti, ad esempio, la canzone interpretata da Mario Merola “Zappatore”, accanto a quelle di Jannacci, o Guccini; viene citata la filmografia di Loach, Rosi, ma anche la Wertmüller; poi romanzi e poesie, Brecht, Kafka, Wilde. Si riemerge da letture come questa con il desiderio di capire i propri posizionamenti, i condizionamenti e i principi che orientano le scelte, soprattutto nel momento in cui si lavora nel sociale, a supporto di persone provate da storie famigliari e sociali complicate, che fronteggiano il rischio di incorrere in ulteriori situazioni di sofferenza e deprivazione. Lo stesso desiderio si allarga poi alla possibilità di coinvolgere i destinatari del nostro lavoro in questo tipo di processi riflessivi, affinché possano operare scelte più consapevoli e libere, quando questo è possibile. Anche a livello di vita quotidiana, nelle comunità residenziali per mamme con bambini, che sono tipicamente contesti multiculturali, il tema della buona e della cattiva educazione è un terreno di confronto continuamente sollecitato. Nutrire e proporre l’educazione alimentare ai figli, per esempio, è un aspetto della genitorialità estremamente sensibile. Le scelte alimentari, i tempi, le modalità di assunzione del cibo e lo stile di convivialità durante i pasti sono aspetti identitari dal portato simbolico importante, con cui viene intenzionalmente trasmessa la “buona educazione” ai piccoli. Per le donne in comunità, non di rado, si gioca su questo tema anche la possibilità di mantenere una forma di connessione con il contesto di origine che, quando poi è lontano, costituisce un imponente orizzonte di richiamo, per provare a “riparare” la rottura della linea di continuità che, nella loro storia personale e famigliare, l’ingresso in una struttura residenziale “straniera” ha di fatto causato. D’altra parte, poi, anche i bambini in comunità e a scuola sperimentano un qui ed ora che chiede loro di adeguarsi agli stili di socializzazione locali; sono alle prese con il lavoro di interiorizzazione del nuovo modello, per farlo in qualche modo dialogare con quello sperimentato con i genitori. Questo tema, certamente delicato, può anche divenire un interessantissimo campo di “meticciamento”, soprattutto quando gli adulti attivano momenti di confronto e scambio di pratiche e (gustosi) saperi; è però necessario mantenere attivo un dialogo che, da un lato, permetta di riconoscere i limiti e necessità che le contingenze della routine comunitaria necessariamente comportano e, dall’altro, aiuti gli operatori a tenere sempre presenti la fatica e lo spaesamento che derivano dall’accettazione di abitudini alimentari poco affini e attraenti rispetto ai propri gusti e interessi.

Un altro interessante tema di confronto che chiama in causa in modo diretto la maleducazione, è quello che viene frequentemente proposto da numerose donne, in particolare di provenienza centro-africana, in merito all’eccessiva “licenza” concessa ai bambini italiani, nelle loro interazioni con gli adulti. Queste donne dichiarano la loro convinzione, nella convivenza quotidiana, che “qui in Italia” i genitori siano troppo permissivi e causino danno ai figli, che crescono mal-educati; esprimono non di rado il timore che anche i loro figli possano prendere la stessa “brutta piega” e non trovano tollerabile, per esempio, che un bambino possa ribattere all’adulto che lo sta riprendendo, che gli sia consentito interrompere una conversazione, che pretenda di decidere quando gli adulti si debbano dedicare al gioco con lui. Rivendicano in sintesi, come educatrici, la necessità di non consentire ai figli di sconfinare liberamente nel mondo adulto, area di relazione che deve restare, a loro parere, a una fisiologica distanza da quello dei bambini, anche a protezione dei piccoli stessi. Questo tipo di critiche, che a noi ricordano modelli di educazione antichi, autoritari e portatori di una disciplina non più in auge ci sollecitano su un aspetto di fondo. Nel promuovere e sostenere il quotidiano lavoro di sintonizzazione materna rispetto al “mondo dei bambini” e ai loro bisogni psicofisici, occorre interrogarsi sul ruolo preminente che oggi attribuiamo alla valorizzazione della soggettività e alla libertà di “esprimere sé stessi”, a scapito della socializzazione nel contesto relazionale di riferimento, che chiede l’impegno di un lavoro di adattamento. Nel percorso educativo auspicato dalle donne citate, un’educazione ben riuscita avrebbe verosimilmente come esito il compimento del processo di affiliazione del soggetto al suo contesto famigliare e sociale, la sua integrazione in relazioni, anche gerarchicamente connotate, in grado di offrirgli un compiuto riconoscimento pubblico e, come conseguenza, un senso chiaro di identità, inteso come il suo “posto nel mondo”. In una contemporaneità dove invece prevalgono, come visto sinora, la frammentarietà e il disorientamento dei gesti educativi, questa prospettiva appare poco praticabile; serpeggia più facilmente la suggestione, indotta e illusoria, di poter autogovernare il proprio destino e di nutrire le ambizioni individuali di realizzazione personale; questi però sono “miti” che in realtà dissimulano l’inadeguatezza da parte del contesto sociale nel dare sostegno ed indirizzo, di proteggere e orientare i soggetti in crescita. Ancora una volta, preso atto dei limiti oggettivi della realtà sociale in cui siamo inseriti, occorre far dialogare i modelli per poter scegliere quali direzioni prendere e con quali probabili esiti, stimolando il confronto sugli scenari possibili. Nella complessità di un presente in cui è sempre più impellente la necessità di prendere delle posizioni, la riflessione sulla maleducazione aiuta ad accedere ad una maggiore consapevolezza di sé e accresce la capacità di lettura delle dinamiche sociali, nostro imprescindibile orizzonte di riferimento.