Sergio Tramma
Una storia senza pietà.
Nel corso del tempo, la parola pietà ha assunto sfumature di significato che vanno ben oltre quello originario della cultura latina. Secondo il vocabolario Treccani-online la pietà è una “Disposizione dell’animo a sentire affetto e devozione verso i genitori, verso la patria, verso Dio, e a operare di conseguenza, o, più in generale, rispetto reverenziale per ciò che è considerato sacro”. Sempre il vocabolario Treccani ci dice che la parola esprime un “Sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre”, quasi a far divenire l’atteggiamento nei confronti della sofferenza il centro della questione e il significato d’utilizzo diffuso del termine.
Alla parola pietà si associano, alle volte utilizzate come sinonimi, altre parole quali compassione, empatia, commiserazione ecc., per conferirle ulteriore dignità si usa la parola pietas, la quale non dovrebbe essere negata ad alcuno, neppure ai nemici sconfitti dopo aspre battaglie.
È una parola che esprime uno stato d’animo tendente, comunque, a una posizione di asimmetria tra colui che la pietà la prova per gli altri (alcune volte anche per se stesso, ma questo è un altro discorso) e colui che negli altri (intenzionalmente o no) la pietà suscita. E una delle sue immagini più forti ci è stata trasmessa dalla religione cattolica: Maria che tiene in grembo il figlio Cristo morto, quasi a fissare nel marmo e nella mente cos’è e qual è il campo di applicazione della pietà.
La pietà è per la vita e per la morte: per quello che l’altro sta vivendo, per il disagio nel quale è immerso e per le sofferenze che comporta; e anche per l’altro quando è morto, nei confronti del quale si dovrebbe avere sempre pietà, anche quando, come si è detto, è nemico. È anche questo che Antigone chiede a Creonte, che la città manifesti pietà al cospetto del corpo di Polinice, pur nemico ucciso in battaglia, e la provi in nome di quelle leggi superiori alle quali tutti dovrebbero conformarsi. Ancora, la pietà può essere anche degli sconfitti nei confronti dei vincitori: in fondo, non è pietà quello che viene attribuito a Cristo in croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”?
La pietà avvicina all’altro, stabilisce un contatto, lo ritiene un soggetto degno di essere riconosciuto; nello stesso tempo la pietà testimonia la distanza: dichiara che la condizione tra colui che la pietà produce e colui che la riceve. Possono essere soggetti entrambi sofferenti, ma l’uno vive le sofferenze, l’altro soffre per quelle altrui. Non è lo stesso. La pietà è per le sofferenze di un individuo, ma può essere anche per le sofferenze del mondo, i mezzi di comunicazione di massa consentono di provare pietà per persone anche molto distanti dai luoghi della vita quotidiana, e forse è proprio la distanza che permette di avere una pietà non coinvolgente, non rischiosa, che non compromette e può sostituire in pieno quella che non si prova per coloro che abitano la nostra prossimità. E non va dimenticato che la pietà ha anche la sua zona di degenerazione: il pietismo.
E quindi, è sempre positiva la pietà? Non è mai pietismo a basso costo, quello che costella tanti discorsi? Si tratta sempre di pietà nobilmente intesa? La vita non sarebbe forse migliore se il legame di pietà fosse ampiamente diffuso e partecipato? Impossibile non rispondere affermativamente a questa ultima domanda, chi oserebbe parlare male della pietà? Eppure, è necessario sottolineare che la pietà non è sufficiente, e che alcune volte può essere uno stato che ha come primo risultato quello di tranquillizzare chi la prova e non di alleviare le condizioni di chi la riceva, e in questo somiglia molto all’elemosina dei tempi andati: il povero a cui si dà della moneta rende più tranquilla l’esistenza, quasi a sentire di avere fatto il proprio dovere nei confronti di quella persona e del mondo intero. Ma al povero, quella moneta cambia davvero la vita, o la conferma?
Allora? Si potrebbe ipotizzare un passaggio auspicato: quello dalla pietà “in purezza” alla fratellanza, alla solidarietà. Il passaggio cioè alla ricerca di qualcosa in comune. Essere solidali nel qui ed ora riconoscendosi nella concretezza di una storia comune, senza confondere la propria condizione con quella altrui, riconoscendo la diversità dei disagi, senza a pensare di essere parte di una impalpabile e indistinta umanità comunque sofferente, bensì essere parte della stessa storia.
Ad alcune esperienze di comunanza è possibile fare riferimento. Per esempio, le migrazioni sono un fenomeno globale e inarrestabile che investe tutti i Paesi della Terra (piaccia o meno ai teorizzatori delle nuove fortezze materiali e metaforiche) pur presentandosi in modo differenziato in relazione ai diversi tempi e luoghi. Le migrazioni attuali presentano sicuramente delle particolarità (chi emigra, da dove e per dove, le motivazioni e le aspettative ecc.), nello stesso tempo presentano dei tratti che potrebbero dirsi pressoché universali, inalterati nella loro essenzialità: migrare significa cercare in luoghi diversi da quelli di nascita o di residenza condizioni di vita migliori, con l’obiettivo di superare la soglia della sopravvivenza, e anche con lo scopo di migliorare la propria vita. È così per le migrazioni attuali, è stato così per le migrazioni interne degli anni ’50-‘60, per quelle verso gli altri paesi dell’Europa o verso le Americhe. Non è necessario ricorrere alla saggistica specialistica per cogliere universalità e specificità dei processi migratori, aiutano, tra le molte, opere quali quelle di Edmondo De Amicis (Sull’oceano, 1898); ricostruzioni come quella di Deaglio (Storia vera e terribile tra Sicilia e America, 2015) o di Paolo di Stefano sulla tragedia di Marcinelle (La catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956, 2011), ricostruzioni con taglio giornalistico (L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Gian Antonio Stella, 2002); per non parlare di film quali Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960) o Nuovomondo (Emanuele Crialese, 2006).
Sono tutte produzioni letterarie e cinematografiche che aiutano, forse più e meglio dei saggi, a capire che nella vita di ciascuno, direttamente o indirettamente vi sono delle storie di migrazioni: dagli antichi processi di urbanizzazione che hanno trasferito le popolazioni dalle campagne alle città, alle migrazioni dal Sud al Nord dell’Italia, che ancora si verificano. La lettura e la visione di questi film possono (pur senza alcuna garanzia) aiutare ad andare oltre la pietà, a scoprire tratti di condizione comune in cui l’altro vive la nuova versione di processi che hanno interessato, seppure in tempi e modi diversi, ognuno: se stessi, i propri genitori, i propri antenati. Tutti parte di una stessa storia che tanto distingue quanto accomuna. E allora la, pur degnissima, pietà potrebbe intrecciarsi con altro, anche con possibilità di comprensione della propria storia, cioè con la conoscenza di sé, della propria complessità e contraddittorietà.
Il riferimento alle migrazioni è d’obbligo, anche perché parrebbe che in alcuni momenti “Pietà l’è morta”, per utilizzare fuori contesto le parole di una canzone di Nuto Revelli. Ma i casi nei quali è opportuno pensare di andare oltre la pietà potrebbero essere molti, anche le storia difficile di donne, madri o no, che tentano, con o senza aiuti, con passi avanti e passi indietro, di cambiare la loro vita, e di cambiarla in meglio. Storie, in cui spesso la migrazione ha costituito e costituisce lo scenario entro il quale si costruiscono le storie particolari. Ecco allora che la pietà che si può provare nei confronti di storie di donne, che in quanto tali nelle esperienze difficili sono penalizzate due volte, può aprire al salto della solidarietà e – è il caso di dirlo – alla fratellanza/sorellanza. Le donne che sono oggi in condizioni di disagio perché vittime di violenza, perché migranti, perché non hanno le risorse materiali e immateriali per essere del tutto indipendenti, perché crescere dei figli può anche essere un compito gravoso e contraddittorio. tutte queste condizioni sono riconoscibili anche come l’episodio attuale di una lunga storia.
Una storia che ha avuto altre diverse ma uguali protagoniste individuali e collettive: dalle donne che dal Sud al Nord del Paese hanno, come recita una canzone di Luigi Tenco riferendosi a un idealtipo e non a un soggetto concreto, saltato “cent'anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo”, alle donne che per prime hanno commesso un atto di ribellione che, come nel caso di Franca Viola, ha realmente trasformato il privato in politico, legittimando il bisogno di scelta attorno ad alcuni passaggi fondamentali della propria vita.
La pietà, questa materialità immateriale della condizione umana, dunque è risorsa preziosa ma non è intensamente solare come può apparire al primo sguardo. Sarebbe opportuno considerarla una prima e non sufficiente, anche se può essere vissuta come piena e totalizzante, reazione nell’accostarsi al disagio altrui, pensarla quindi come uno stato che deve generare altre reazioni. E qui potrebbe essere d’aiuto uno scrittore molto legato al Novecento, Elio Vittorini, e un suo libro, Conversazione in Sicilia (Einaudi, 1966/1941). Da questo libro ricaviamo alcune frasi che aiutano a descrivere l’atteggiamento nei confronti del disagio altrui. Proprio nell’incipit, Vittorini scrive di “astratti furori” per “il genere umano perduto” (p.5), poi che gli esseri umani sono pronti non solo per “essere buon cittadino” ma anche sentire “altri doveri” (p.28). Ecco che il disagio che colpisce alcuni di coloro con cui entriamo in rapporto ci rende partecipi di una sofferenza comune, che non nega le differenze e le asimmetrie, non è solo la sofferenza “per se stesso”, ma la sofferenza “per il dolore del mondo offeso” (p.134) che può generare tensioni trasformative. Un mondo, cioè una storia comune che si presenta sempre diversa e sempre uguale, una storia nella quale, è bene tenerlo presente, non ci sono solo gli offesi ma anche chi offende, e non sempre questi ultimi meritano pietà.