La psicologia ci regala a volte parole molto belle. Quella che qui, tra le mura della nostra Fondazione preferiamo è AUTOEFFICACIA.
Se il lettore teme di essersi imbattuto in un complesso articolo scientifico ci sentiamo di rassicurarlo, stiamo solo parlando della più bella avventura che una persona possa affrontare, l’avventura di crescere ed emanciparsi.
Quando un ospite varca la soglia di una comunità sono molti gli aspetti di cui un educatore tiene conto. Aspetti diversi e a volte contrastanti. Da una parte c’è la speranza per una nuova ripartenza, d’altra parte ci sono la paura e la diffidenza verso un mondo di cui spesso si sente parlare in negativo. Cosa si fa in una “comunità”? Come si vive? Quali sono le regole che verranno imposte? Potrò fidarmi delle persone che mi trovo davanti? E io, sarò capace di fare tesoro dell’opportunità che mi viene offerta?
Sono tutti sentimenti legittimi e giustificati, gli educatori lo sanno e sanno con quanta delicatezza è necessario avvicinarsi all’altro perché l’incontro sia educativo e generatore di cambiamento positivo. Gli educatori sanno che tra tutti gli aspetti che spesso sono più compromessi nella vita delle persone che si avvicinano alle nostre strutture quello dell’autostima e dell’autoefficacia sono i più importanti.
Marta è una giovane mamma che è entrata in comunità a seguito di un lungo e doloroso percorso che l’ha vista dapprima abbandonata dal compagno, finito in carcere e poi perdere la casa dove viveva con i suoi due bambini. A seguito dell’intervento dei servizi sociali Marta viene accolta presso la comunità. All’inizio del percorso gli educatori si accorgono che, sebbene dopo un primo momento di diffidenza si sia aperta al dialogo, fatica sempre ad accettare un confronto e spesso sminuisce le sue competenze come mamma. Dopo un primo ambientamento le si chiede se vuole fare un percorso di inserimento lavorativo a partire dalla scrittura di un curriculum e dalla ricerca di un possibile tirocinio. Inizialmente Marta non vuole approfittare della possibilità poi, dopo l’insistenza dell’assistente sociale accetta. A colloquio con il referente dell’area lavoro Marta si schermisce dicendo di non aver mai lavorato, che lei è sempre stata una persona “incapace e pasticciona”, che le cade di mano tutto e che si stanca tantissimo. Dice che è già tanto se riesce a badare ai figli e che, visto che è finita in comunità, non le sembra di essere tanto brava nemmeno in questo.
Quello che l’educatore vede in questo colloquio è la difficoltà della mamma a sentirsi capace. Si definisce autoefficacia la percezione che ciascuno di noi ha di essere in grado di dominare e padroneggiare aspetti della vita e della società. La capacità di sentirsi capaci di fare qualcosa. Tutti abbiamo un livello di autoefficacia e più ne abbiamo più siamo disposti a metterci in gioco e a sperimentare situazioni nuove, più ne abbiamo più le cose nuove non ci spaventano perché sappiamo che “possiamo farcela”. L’autoefficacia fa il paio con l’autostima che si può intendere come la capacità generale di valutare in modo corretto le proprie capacità e le proprie competenze. Una buona autoefficacia accresce l’autostima una bassa autoefficacia non permette la creazione di una buona autostima.
“Pensa che puoi farcela, pensa che hai tutte le carte in regola per riuscire a emergere. Il mondo è fatto di sfide e tu le puoi affrontare” questa è la frase che ciascuno di noi, sia gli educatori che tutti i giorni stanno a fianco delle nostre ospiti e dei nostri ragazzi, sia tutti coloro che si avvicinano a vario titolo all’altro deve tenere bene in testa. Chi varca la soglia di una comunità ha bisogno di sentire che qualcuno sta a fianco a lei/lui con questo fine, senza giudicare e senza mettere in dubbio le sue qualità. L’educatore è colui che crede in te. Che vede le qualità che ci sono in te prima ancora che te ne accorga tu.
Diversamente da uno psicologo l’educatore sta al fianco degli ospiti nella quotidianità, il suo “laboratorio” è la casa, il suo tempo è il qui e ora, il suo obiettivo è quello di prendere in mano i fili ingarbugliati di una storia e metterci un po’ d’ordine e ridarteli in mano. Perché la storia è sempre la tua e come costruirla è sempre una tua responsabilità. La comunità è un momento di sosta, una pausa che serve a riconnettersi con se stessi e il mondo “di fuori”. Ma questa pausa deve essere breve, deve avere come obiettivo l’uscita e il ritorno alla vita di ogni giorno. Più forti e, soprattutto, consapevoli della propria forza. Un lavoro incredibile e delicato che alla Fondazione Asilo Mariuccia è la fatica di ogni giorno.
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